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La Terza T

Aggiornamento: 15 lug 2020

Molti sostengono che il successo della Fase 2 dipenderà esclusivamente da tre fattori T: Tamponi, Test sierologici e Tracciamento. Mentre però una corretta esecuzione di test e tamponi dipende quasi esclusivamente dalle forze in campo (laboratori e ambulatori per i prelievi) il tracciamento chiama in causa aspetti diversi, e da trattare con molta attenzione.



Non è certo la prima volta che si attua il tracciamento delle persone in occasione di crisi sanitarie. I Paesi orientali che prima di noi hanno subito l’attacco del Covid19 hanno usato un’applicazione per rilevare i contatti tra positivo e le persone incontrate durante la giornata, così da mettere in condizioni le autorità di tracciare - per l’appunto - gli ipotetici contaminati, e tenerli sotto controllo con le misure previste (quarantena, tamponi).



E’ un esercizio che abbiamo visto anche in molti Paesi europei come elemento basilare nel controllo della malattia. In alcuni Paesi si è ricorso alle capacità investigative di moltissimi reparti di Polizia (Germania) o grazie a assunzioni straordinarie di staff (oltre 20,000 “contact tracers” appositamente reclutati in Regno Unito). Sono tutte operazioni che si basano sull’utilizzo massiccio di risorse umane, ma che in Germania hanno contribuito a ridurre la pressione della malattia sulla rete ospedaliera, a quanto si può desumere osservando i dati della pandemia. E’ notizia recentissima che la Germania estenderà il reclutamento a ulteriori 30,000 tracers e la Francia seguirà il suo esempio con un analogo call.

In Italia non abbiamo dati su quanto efficaci siano state le operazioni di tracciamento con sistemi convenzionali, né se siano state applicate in tutti i casi. Invece, ci si è buttati abbastanza rapidamente sul dibattito relativo all’applicazione da installare sugli smartphone, senza considerare alternative di sorta. Per la delicatezza degli argomenti che pone una decisione così invasiva, è necessario fare alcune riflessioni iniziali, sia da un punto di vista di legittimità – dato che si mette in discussione, anche se per fini sanitari, la privacy del singolo – che di scelte tecniche.



Per quanto riguarda la legittimità, si resta abbastanza stupiti che un aspetto, in particolare, sia sottostimato. Infatti, nel primo caso (della storia repubblicana) di distribuzione massiccia di un’applicazione per gli smartphone di tutta Italia sembra che nessuno ritenga necessario un passaggio parlamentare. Forse si pensa sia sufficiente una Ordinanza del Commissario? La Costituzione, a questo proposito, è piuttosto chiara: le limitazioni delle libertà individuali possono essere messe in atto solo per motivi di sanità e di sicurezza. Per cui è vero che una limitazione alla mia privacy può aver luogo, ma secondo le linee dettate dalla Costituzione, che individuano in una legge il mezzo per rendere operativa questa decisione.

Sempre da un punto di vista di legittimità, resta anche poco chiaro (tra i molti aspetti poco chiari) la gestione dei dati che le decine di milioni di smartphone produrranno giornalmente. Ancora non c’è molta chiarezza in proposito, ma sembrerebbe che i dati raccolti consistano negli identificativi (anonimi?) che sono venuti in contatto con il positivo.




Se le informazioni si limitano solo al momento di contatto con il positivo, o se invece riguardino un arco temporale più ampio, è un elemento ancora tutto da acquisire, dato che indicazioni formali che regolino nel dettaglio questi aspetti ancora non sono in circolazione, né sono state preannunciate. E questo è un aspetto importante, dato che parliamo di informazioni che sono merce preziosa, visto che riguardano tutto quello che facciamo durante la giornata. E’ dunque lecito chiedersi se anche questo non sia un punto da affrontare con una legge, piuttosto che con forme di legislazione secondaria.

Esistono, inoltre, aspetti di tipo applicativo che chiamano in causa possibili discriminazioni tra cittadini.

Il primo aspetto da considerare è che secondo i dati aggiornati al 2018, solo il 58% di cittadini italiani solamente è dotato di smartphone. Questo è un dato importante, al momento stesso in cui questa applicazione, secondo un recente studio pubblicato da “The Lancet” e confermato in un rapporto OCSE, può fornire un aiuto sostanziale se utilizzata da una percentuale tra il 70 e il 90 % degli utenti. Questo è un punto cruciale, su cui si sono arenati anche Paesi – come Singapore – che a fronte di soli 6 milioni di abitanti hanno registrato il 20% di download ed utilizzo. Vale la pena ricordare che Facebook, il social network più usato in Italia, ha impiegato anni per arrivare alla registrazione volontaria (la stessa che il Governo si sta preparando a chiedere) di poco più di 37 milioni di utenti, la cui gran parte appartiene alla fascia giovanile (entro i 35 anni), quella meno esposta al contagio.

A ciò si aggiunga anche il fatto che non tutti gli italiani risiedono in zone coperte dal segnale, il che comporta una seria difficoltà a comunicare il loro stato sanitario in tempo utile. Anche in questo caso, siamo di fronte ad una discriminazione tra persone che risiedono nello stesso Paese.

Passando agli aspetti più prettamente tecnici, dobbiamo innanzitutto notare che una scelta di fondo è stata fatta da subito, e cioè quella di usare come sistema di localizzazione il Bluetooth Low Energy (BLE), che intercetta sostanzialmente identificativi univoci trasmessi dai telefoni posti nelle vicinanze. Se un identificativo è associato alla diagnosi di positività, è possibile accedere alla lista degli smartphone che hanno avuto contatto con quest’ultimo in un arco temporale prefissato.

Questa scelta pone due interrogativi. Il primo è quello che l’utente ha l’obbligo di tenere acceso il proprio BLE costantemente, con tutto quello che significa in termini di impatto sulla durata media delle batterie. Non è una questione da poco, soprattutto tenendo in considerazione le modalità con cui le batterie vengono prodotte al giorno d’oggi (miniere di cobalto in Africa con relativo sfruttamento di manodopera infantile). Tenere acceso il BLE significa, tra l’altro, tenere anche costantemente operativa l’applicazione in quanto la stessa non può lavorare in background, poiché questo farebbe cessare il funzionamento del BLE dopo un quarto d’ora di inattività.

Oltre a questo, esistono dubbi sulla capacità di questa tecnologia a considerare i due fattori più importanti nella lotta alle malattie infettiva e contagiose: il tempo di contatto e la distanza tra le due persone (malato/positivo >< sano) coinvolte nella trasmissione dell’infezione.

Numerose pubblicazioni scientifiche indicano che anche il Covid19 rispetta questa regola, come dimostrano la tipologia degli ambienti dove più frequentemente si sono riscontrati i focolai: RSA, ristoranti, call center, ospedali. Insomma, tutti luoghi dove si realizza un’aggregazione importante, ravvicinata e prolungata di possibili vittime della malattia. Al momento, non sembra essere per nulla chiaro se la BLE possa indicare con precisione lo stretto contatto e per quanto tempo si sia mantenuto tale, dato che è una tecnologia in grado di “agganciare” telefoni distanti anche molte decine di metri.

E allora ci si chiede se davvero la rilevazione di un dato che non è in grado di dirti con precisione quanto sei andato vicino al positivo e quanto tempo è durato il contatto possa fornire indicazioni utili. Oltretutto, quell’informazione, basata su dati così raccolti, comporterebbe l’adozione di misure quali quarantena e tampone. E se vogliamo dirla tutta, vista la percentuale di tamponi eseguita fino ad oggi – con le situazioni paradossali di morti probabilmente riconducibili a Covid 19 a cui NON sono stati fatti i tamponi – si rischia davvero di isolare per due settimane a casa persone che hanno avuto la sfortuna di essere venute a contatto con un positivo solo a distanza e per brevissimo tempo.




Altro aspetto tecnico molto importante che ancora è in discussione e che è stato appena accennato in precedenza è l’architettura (se centralizzata o decentralizzata) che dovrà avere l’intero sistema. Anche qui, l’opzione più sicura è certamente quella dell’architettura decentralizzata, poiché in questo caso i dati (e cioè gli identificativi dei cellulari incontrati durante la giornata) risiederebbero localmente (nello smartphone) e verrebbero resi disponibili solo in caso di positività. In una logica centralizzata, invece, questi dati risiederebbero in un server - approccio decisamente meno sicuro per la privacy, soprattutto in assenza della necessaria decisione su chi deve esercitare il ruolo di gestore di questo server (Pubblico? Privato?).



Per non affrontare anche il problema dell’interoperabilità. In un mondo in cui i trasporti consentono lo spostamento rapido di persone, cosa succederà agli stranieri che visiteranno (speriamo) l’Italia prima o poi? Sfuggiranno dai radar di Immuni?

Insomma, al momento sono ancora presenti, e non risolti, problemi di non poco conto sia di tipo legale che tecnico che fanno pensare che un utilizzo massiccio dell’applicazione – in assenza di soluzioni che risolvano tutte queste osservazioni – non possa essere fattibile in tempi cortissimi, almeno quanto il Governo vorrebbe. E anche ove si risolvessero tutte le problematiche la possibilità di coprire la gran parte della popolazione è un obiettivo francamente difficilmente raggiungibile.

Rimane senza risposta la domanda che ci facevamo in precedenza. E’ davvero l’unico mezzo per arrivare ad individuare con esattezza (più che con celerità) i possibili contagi? O si sta disegnando un sistema sovradimensionato rispetto ai fabbisogni, che alla fine rischia di coinvolgere più persone di quello che in realtà serve?

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